Durante la quarantena mia sorella ha deciso di svuotare la cantina. Eravamo già nella fase in cui si poteva andare a trovare i "congiunti" e io sono passata da casa sua giusto il pomeriggio in cui lei stava decidendo cosa tenere e cosa no.
Aggirandomi tra gli scatoloni, la mia attenzione è stata catturata da un vecchio macinino da caffè da parete, ancora funzionante.
L'ho preso in mano chiedendole "E questo?". Lei mi ha risposto "Boh! Non so come sia finito tra le mie cose! Se vuoi prendilo pure".
Mi pareva di averlo già visto. Forse anni prima nella cucina dei miei genitori?
Incuriosita ho chiesto notizie al mio babbo.
Nei primi anni 70 lui e suo padre decisero di comprare l'appartamento dove attualmente vivo io e di affittarlo.
La prima inquilina avrebbe dovuto essere una professoressa in pensione che si voleva trasferire, lasciando la sua abitazione in campagna.
Purtroppo, a trasloco appena iniziato, la signora morì.
Non avendo parenti prossimi, gli eredi, che vivevano lontano, chiesero al mio babbo ed al mio nonno di aiutarli a vendere la sua roba, oltre ad invitarli a tenere cio' a cui eventualmente fossero stati interessati.
Ascoltando mio padre parlare mi vengono in mente immagini confuse, come quando al mattino ti svegli e ricordi pezzi di un sogno.
Sono piccola e con me ci sono anche mia sorella, il babbo e il nonno. Scendiamo dalla macchina davanti ad una casa. Superiamo il cancello e attraversiamo il giardino visibilmente abbandonato, anche ai miei occhi di bambina. Non suoniamo il campanello perché mio nonno ha la chiave del portoncino. Entriamo e io e mia sorella aspettiamo al buio nell'ingresso, fino a che i grandi non hanno aperto un paio di finestre. La luce del pomeriggio estivo illumina le stanze immobili piene di cose immobili. Tutto è ricoperto da polvere e non c'è neanche un giocattolo.
Il mio babbo non solo conferma ma racconta anche che fu proprio quella l'occasione in cui prese il macinino da caffè e lo portò a casa sua. I miei genitori l'appesero nella loro cucina, poi la mia mamma, dopo qualche anno, lo fece sparire.
Mentre lo ascolto parlare ho un'intuizione.
Quindi il macinino, all'epoca, avrebbe dovuto trasferirsi con la sua proprietaria proprio nel mio appartamento! La cosa incredibilmente buffa è come, nonostante poi fosse tutto saltato, lui avesse comunque preso quella strada grazie al mio babbo.
Il tempo in cui è rimasto chiuso in uno scatolone nella cantina di mia sorella non sarà certo stato un granché, ma poi, il lockdown, paradossalmente lo aveva liberato dalla prigionia.
E appena uscito, tu guarda che fortuna! Proprio mentre stava per essere buttato via, arrivo io e gli offro una chance pazzesca di raggiungere finalmente il posto in cui sarebbe dovuto arrivare decenni prima.
Lui, il macinino, un tipo tosto, incontra Lei, cioè io, la donna che abita proprio lì dove lui era diretto e lo porta con sé.
Una fantastica storia d'amore!
Non è forse così che funziona anche tra gli umani? Ci si innamora di chi ci fa sentire a casa.
"Che cosa significa per te "ti amo"? Cioè che cosa vuol dire amare?".
Comincia così un messaggio di mia figlia. Mi arriva in un pomeriggio d'estate mentre riposo sul divano godendomi la penombra e il ventilatore acceso.
La prima cosa che penso è: chiarirle un punto fondamentale, e cioè che da ora in poi le uniche domande alle quali voglio rispondere saranno: "Su questi pantaloni ci sta meglio la maglietta gialla o quest'altra?" oppure "Cosa c'è per cena?".
La seconda cosa a cui penso è una canzone di Tiziano Ferro che dice "Non te lo so spiegare..."
La terza è: chissà cosa avrebbe risposto mia mamma se mai la mia "io ventenne" si fosse sentita libera di chiederglielo?
E' troppo e mi addormento.
Dopo un paio di giorni, e alcune conversazioni tra amiche, ancora non mi decido. Tutto ciò che mi verrebbe da dire a mia figlia sulla faccenda mi sembra banale. Vorrei trovare qualcosa di assolutamente saggio e siccome tanto non mi riuscirà, vada come vada. Incrocio le dita e le mando un messaggio vocale.
Con tono solenne, nel ruolo di ultima discendente femminile di una fila di donne che, di madre in figlia, nei secoli dei secoli mi hanno permesso di venire al mondo ed essere qui proprio ora a rispondere alle sue domande sull'amore, mi accingo a trasmetterle la mia verità sul tema.
Il pezzo forte della lezione magistrale è il concetto che, secondo me, l'amore è un percorso. Nella vita io ho amato più volte e, ogni volta, la volta che è venuta dopo è sempre stata abbastanza diversa da quella precedente, al punto da rimettere in discussione quello che avevo imparato sull'amore fino ad allora. Ciò che credevo volesse dire amare a 20 anni non è lo stesso di quello che credevo volesse dire amare a 30 per dire.
Cosa fare quindi?
L'opzione migliore che mi sento di consigliarle attualmente, è di viversi l'esperienza, con la consapevolezza di star esplorando un territorio che forse non riuscirà mai a conoscere totalmente.
Per farle capire meglio e dare più forza a quello che intendo, prendo pure in prestito una cosa che mi ha raccontato Tereza, mia ispiratrice di fiducia nel campo delle metafore azzardate.
Quando, negli anni '90, andava al liceo, sul muro della sua scuola qualcuno aveva scritto con una vernice nera "Cataluña libera". Dopo qualche tempo la parola "libera" era stata cancellata e al suo posto era stato scritto "libre". Dopo un altro po', era stata cancellata la parola "Cataluña" e sostituita con "Catalugna", poi cancellata la parola "libre" e sostituita di nuovo con "libera". Avanti così finché alla fine qualcun'altro, stufo, aveva scritto sotto con una vernice rossa "Pensa alla fica tonto".
Chissà se le antenate approveranno le mie spiegazioni. Qualcuna si sarà rivoltata nella tomba, magari qualche altra si sarà sentita rappresentata e avrà applaudito!
Guardo il macinino nella mia cucina.
Si diceva che ci si innamora di chi ci fa sentire a casa, ma come ci si sente a casa cambia con con noi nel corso del tempo... Lo dico a mia figlia e contemporaneamente a me stessa. Vogliamo capire cos'è l'amore, ci sforziamo di trovare le parole giuste per definirlo, poi le correggiamo, ne troviamo di nuove o riprendiamo quelle che avevamo usato prima, come sul muro del liceo di Tereza, ma forse sarebbe meglio semplicemente starci (o "stacce") dentro, quando ci succede, finché dura.